Angelica Rossi Freelance Medical Nutrizione

NEOFOBIA ALIMENTARE: COS’E’ E COME GESTIRLA

È molto frequente tra i più piccoli, ma può riguardare anche gli adulti: parliamo della neofobia, ovvero di quel comportamento che porta al rifiuto degli alimenti non familiari e che impedisce l’assaggio di nuovi sapori, limitando – talora pesantemente – la varietà della dieta.

Sulla neofobia la ricerca lavora da tempo, perché questa forma di rifiuto preconcetto verso cibi mai provati (o addirittura verso pietanze note, ma presentate in modo diverso) si ripercuote in modo negativo su gran parte delle scelte alimentari decisive per la salute, riguardando soprattutto il consumo di verdura e frutta, ma non solo: spesso il neofobico rifiuta anche gli alimenti proteici, che siano di origine animale o vegetale (legumi).  L’associazione con una carenza di nutrienti essenziali ne è la conseguenza principale, tanto più preoccupante perché la neofobia al cibo è soprattutto infantile. 

La neofobia alimentare, ai tempi dell’uomo preistorico, aveva in qualche modo una funzione protettiva: per evitare di mangiare qualcosa di potenzialmente velenoso o tossico, l’uomo rifiuta naturalmente alimenti sconosciuti o dal gusto amaro, sulla base di meccanismi neurologici edonici presenti alla nascita. La presentazione di un nuovo alimento di qualsiasi tipo può innescare una risposta di paura (o di esclusione) nell’individuo. Pertanto, il rifiuto non avviene durante l’assaggio del cibo, che rischierebbe di avvelenare, ma piuttosto avviene principalmente a livello del dominio visivo. Perciò, gli alimenti che il bambino giudica “strani” verranno inizialmente respinti in base alla sola visione. Classico esempio: le verdure verdi. Nella società moderna, come già anticipato, questa caratteristica potrebbe al contrario risultare disadattiva, portando l’individuo verso diete monotone e nutrizionalmente sbilanciate. 

La neofobia alimentare è una parte integrante o un sottoinsieme del cosiddetto “picky/fussy eating”, ossia di un comportamento alimentare schizzinoso. Questi atteggiamenti sono presentati come le due principali forme di rifiuto alimentare nei bambini, e riguardano fondamentalmente prodotti salutari. Tale comportamento si traduce in una dieta abituale caratterizzata dal consumo di una varietà particolarmente bassa di alimenti e, quindi, a una possibile mancanza di micronutrienti essenziali e fibre necessari per il normale e salutare sviluppo del bambino. Ecco perché il basso consumo di frutta e verdura da parte dei figli è una comune fonte di preoccupazione per i genitori: un adeguato consumo di questi alimenti oltre ad assicurare un sano sviluppo, può proteggere da malattie a lungo termine. 

Sia la neofobia alimentare che il “picky/fussy eating” sono comportamenti temporanei e legati all’età, ma secondo alcuni autori ognuno di essi segue uno specifico percorso di sviluppo. La forza della risposta neofobica cambia durante lo sviluppo: una minima forma di neofobia potrebbe essere adattativa durante l’infanzia, un periodo in cui l’accesso al cibo è controllato principalmente dagli adulti e i bambini non sono ancora mobili e in grado di procurarselo da soli. Nella prima infanzia, quando i bambini sono sempre più indipendenti, capaci di muoversi autonomamente e maggiormente in grado di procurarsi il cibo da soli, la neofobia aumenta e raggiunge il suo picco tra i 2 e i 6 anni. Dopo quel periodo, l’espressione della neofobia alimentare diminuisce, fino a raggiungere un plateau relativamente stabile in età adulta. Da un punto di vista evolutivo, un’ipotesi plausibile è che la neofobia alimentare si attenui perché la varietà alimentare è essenziale per la sopravvivenza delle specie onnivore. La mancata diminuzione della neofobia sarebbe disadattiva per la sopravvivenza e i tassi di riproduzione nella nostra specie, poiché la natura onnivora degli esseri umani impone esigenze nutrizionali diverse, che possono essere ottenute solo attraverso una dieta altrettanto varia. 

Vi sono differenze individuali e di genere nella forza della risposta neofobica: la neofobia alimentare sembra essere più elevata nei bambini maschi rispetto alle femmine. Vi sono anche prove di somiglianze famigliari nella neofobia, che può avere una componente genetica; essa è collegata ad altre caratteristiche di temperamento e personalità, che sono note per avere legami genetici. Alcuni aspetti della personalità che sono stati positivamente associati alla neofobia alimentare sono l’ansia e il nevroticismo. Madri che sono state più neofobiche strutturano l’ambiente alimentare dei loro figli in modo che cibi nuovi e non comuni siano presentati meno frequentemente rispetto alle famiglie in cui le madri sono state meno neofobiche, offrendo così minori opportunità ai figli di provare nuovi cibi e ridurre la loro neofobia. 

Come si può prevenire la neofobia?

Recenti ricerche hanno iniziato a rivelare come l’esperienza e l’apprendimento precoci possano ridurre la risposta neofobica ai nuovi alimenti. Per esempio, sappiamo che essa è ridotta da ripetute opportunità di consumare nuovi alimenti. In aggiunta, oltre alle esperienze ripetute nell’assaggiare e mangiare un nuovo alimento che riducono la neofobia alimentare e migliorano l’accettazione, anche esperienze ripetute nell’annusare o guardare nuovi cibi hanno lo stesso effetto. Persistenti esperienze positive con un certo alimento ridurranno la riluttanza del bambino a mangiarlo. 

Durante gravidanza, allattamento e svezzamento, le mamme sono più attente alla propria alimentazione, si informano e sono disposte a cambiare alcune abitudini. È certamente un periodo stimolante da sfruttare, anche per allenare nel bambino il senso del gusto, oltre a quello del tatto e della coordinazione motoria, necessaria per portare alla bocca il cibo: insomma, il cibo come esperienza a 360 gradi. È bene quindi incoraggiare la madre a privilegiare la qualità degli alimenti, introducendo tutta la varietà di verdura, frutta e legumi che le stagioni offrono.

La prima occasione (e forse la più decisiva) per agire sono proprio i mesi dello svezzamento, in cui si avvia l’introduzione dei cibi diversi dal latte materno (o dalle formule). Fare in modo che il bambino piccolo manipoli il cibo ignoto è fondamentale: la prima conoscenza che il bambino ha del mondo passa dalle manine, prima ancora che dagli occhi e, subito dopo, si passa all’assaggio. È un gesto automatico. Lasciare che il bambino costruisca un’esperienza personale, con i propri tempi e modi, stimola la sua curiosità ed è un ottimo punto di partenza. Si parla a questo proposito di “autosvezzamento”, ovvero una modalità dinamica di approccio al cibo in cui il bambino “gioca” con esso, imparando colori, consistenze, sapori e metodi di masticazione. 

Quindi, sfruttare la finestra temporale dallo svezzamento (eventualmente attraverso l’alimentazione complementare a richiesta, o autosvezzamento) fino ai 2-3 anni è sicuramente molto più semplice che cercare di correggere, attorno ai 6 anni, abitudini acquisite e già radicate. A conferma di ciò, alcuni studi mostrano che ci sono poche variazioni nelle preferenze alimentari rilevate a 2-3 anni e quelle rilevate a 8 anni, sottolineando l’essenzialità di proporre una più ampia gamma di gusti fin da subito.

I gusti, come sappiamo, sono cinque: dolce, salato, amaro, acido, e umami, parola giapponese traducibile con “sapido”, che possiamo identificare con il sapore del glutammato. Che i bambini apprezzino senza incertezze il gusto dolce e, in seconda battuta, il salato e l’umami, è un dato noto. Di primo acchito, invece, sono rifiutati l’amaro e l’acido, tipici di molta verdura e di quasi tutta la frutta. È intuitivo che una forte restrizione diretta per esempio al consumo di verdure a foglia (molti la definiscono in senso spregiativo “erba”) penalizza nello specifico l’assunzione di acido folico, mentre il rifiuto della frutta (agrumi) influisce negativamente per esempio sull’apporto di vitamina C.

Detto ciò, essere circondati da persone in ansiosa attesa che si consumi un determinato alimento è assolutamente sbagliato, e rende ancor più difficile affrontare la neofobia, mentre in un ambiente più informale, in cui al consumo dell’alimento è associato un vissuto piacevole, è possibile creare condizioni più favorevoli all’assaggio. È importante quindi dare valore al pasto come momento conviviale e di condivisione, e ricordarsi che l’esempio dato dai genitori (e dai caregiver in genereale) è fondamentale, a prescindere da quello che si offre al bambino in modo diretto: il piccolo tende infatti ad imitare il comportamento degli adulti!

Referenze


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AUTORE: Angelica Rossi Freelance e Biologa di Scienze Salute e Benessere

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